Cambiare la cultura
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Fare figli non è una malattia, non rende inabili al lavoro. Basta con la discriminazione delle madri (effettive e perfino "potenziali"!) nel mondo del lavoro
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I figli non sono “delle mamme”: la genitorialità condivisa è il futuro, facciamola diventare il presente
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Fare figli non è sempre così facile: le difficoltà di concepimento non devono essere un tabù
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Avere bambini non impedisce di continuare a vivere una vita piena e interessante: non è “la fine del divertimento” né la pietra tombale sulla giovinezza
Perché le persone possano arrivare a fare il numero di figli che desiderano – che ciascuno desidera: e se è zero, va bene così! The Why Wait Agenda non è un’iniziativa che vuole spingere a fare figli, o a fare più figli: semplicemente, vuole creare le condizioni per cui ciascuno possa essere libero di fare il numero di figli che vuole, cominciando a cercarli nel momento in cui li vuole, senza che vi siano ostacoli esterni – bisogna anche lavorare per cambiare la cultura.
Sebbene ogni Paese e addirittura ogni territorio, in Svizzera e in Italia e in tutta Europa, abbia una sua specificità, ci sono degli elementi che ricorrono e che bloccano l’espressione del desiderio di genitorialità di molti giovani uomini e sopratutto giovani donne, creando il cosiddetto fertility gap, il divario tra figli desiderati e figli avuti.
Bisogna partire da tre punti essenziali. Il primo è che fare figli non è una malattia, non rende inabili, e dunque che si può vivere una vita intensa anche dopo aver avuto figli.

Il secondo punto essenziale è che i figli si fanno in due, almeno nella maggior parte dei casi. Cambiare la cultura della cura, coinvolgere i padri, smetterla di chiamarli “mammi“, riconoscere le loro capacità e l’importanza che hanno nel crescere i figli. I figli non “sono delle mamme”, come diceva un vecchio adagio. I figli sono di chi li ha voluti e se ne occupa, e che se ne debbano occupare (e perfino, talvolta, che li debbano volere) solo le donne è una “tradizione” generata da un gigantesco stereotipo di genere che considera che il posto giusto per le donne sia a casa. A occuparsi dei bambini. A dedicarsi a loro. A sacrificarsi per loro.
Ma nel terzo millennio, con le donne che studiano e lavorano e sono indipendenti e vogliono autodeterminazione e parità, questo assioma non può più funzionare. Ci vuole una genitorialità condivisa, in cui il peso del crescere un figlio venga suddiviso equamente sulle spalle dei genitori; gli uomini possono trovare nuovi modi di essere padri, modi più accudenti e meno deleganti di quelli consolidati in tanti secoli.
Il terzo punto è che parlare di come si fanno i figli non è un tabù. Formare una famiglia è un percorso complesso che può avvenire nel modo più tradizionale e veloce possibile – un uomo e una donna sospendono le precauzioni, e tac dopo poche settimane lei è incinta, tutto va bene, il bambino nasce, tutti contenti. Ma può anche andare diversamente. Non sempre i genitori sono due. Non sempre sono di generi diversi. Non sempre si resta incinta al primo colpo. A volte ci sono dei problemi di salute, a volte è l’età a non giocare a favore. Possono capitare false partenze, aborti spontanei. Si può scegliere di utilizzare le tecniche di procreazione medicalmente assistita. Cambiare la cultura della genitorialità vuol dire anche smettere di negare la complessità che ruota intorno al cercare di fare figli, e “normalizzare” quello che succede a centinaia di migliaia di persone, ma che spesso viene considerato inopportuno, qualcosa di cui parlare solo in privato.
Cambiare la cultura è un percorso lungo e tortuoso, che si fa intersecando continuamente un nuovo storytelling della famiglia contemporanea, delle sfide e delle criticità della natalità, con un attivismo per migliorare il quadro normativo e dei diritti.